Un testo di Esther Bondì
” C’è qualcosa di inquietante, e attraente, nel non sapersi preparare per un viaggio. Ci sono viaggi prevedibili, con persone conosciute in luoghi conosciuti, conosciuti davvero o che pensiamo di conoscere, luoghi che ci piace prevedere, presentire.
C’è qualcosa di inquietante, invece, quando al viaggio non ci pensi proprio. Non riesci a predisporti. Non penso sia questione di ignoranza, basata sull’effettiva conoscenza del posto, delle persone, del motivo del viaggio; penso abbia più a che fare con una sorta di inconsapevole maturazione di qualcosa che a nostra insaputa si stava preparando per venire fuori.
Io a questo viaggio non riuscivo a trovare un posto, un senso. 30 maggio, dieci giorni dopo la nascita di mia nipote, penso alla casa nuova da prendere in affitto, ai soldi che non ci sono, al nuovo romanzo che non ho ancora iniziato, a mille nuovi progetti che invece di motivarmi mi spaventano, allo studio che vorrei ma non ho iniziato, penso al non, al non ancora, al non bene, non abbastanza, mentre penso a tutto questo però devo partire, mi hanno invitata al festival, e io parto e nella valigia non so cosa ho messo, non riesco a pensare a cosa farò di questi due giorni.
Rimane solo la contingenza fisica: aereo prenotato, uscire di casa.
Berlino casa – Berlino aeroporto: un’ora.
Berlino aeroporto – Bergamo aeroporto: un’ora e mezza.
Bergamo aeroporto: un’ora di attesa.
Bergamo aeroporto – Verona Porta Nuova: due ore (traffico).
Verona Porta Nuova – Volargne:
dove sei?
Posizione.
Arrivo.
Macchina.
Accosta.
Vedo.
Aspetto:
respiro.
Sorrido.
Siamo in pizzeria, a Verona, intorno a me solo persone che sorridono. La presentazione non l’ho ancora fatta, è domani, ma queste persone, ma perché, chissà, strane creature, vogliono stare con me: mi hanno invitata, e non per lasciarmi chiusa in hotel fino all’ora della presentazione per poi dimenticarmi per sempre. Mi hanno invitata a cena, e vengono tutti quanti, mi sento circondata da persone che si interessano a me e a quello che ho fatto.
Non comprendo. Parlo con tutti, tutti mi parlano, mi raccontano dell’associazione, facciamo piani per il giorno dopo, per stare insieme, vogliono spiegarmi cosa fanno, vogliono farmi vedere tutto, sono curiosi, sono attenti, sono felici, sono persone che amano stare con le altre persone, hanno gli occhi aperti, sono persone che non mi stanno usando per un’ora di chiacchiera su un libro – il mio libro, certo – mi rendo conto che per la prima volta non faccio parte di un meccanismo editoriale, mi rendo conto che non conosco queste regole qui, mi rendo conto che non ci sono regole, qui, ci sono persone e un sacco di affetto.
Mi rendo conto che qualcosa nell’editoria non funziona. Mi rendo conto che fare cose belle è possibile.
Mi lascio andare, mi sento a mio agio, non li conosco, forse non ci vedremo mai più, forse sì, ma è naturale stare insieme. È bello stare insieme. Io chiedo, loro raccontano.
Sono sul fiume, i piedi gelano nell’Adige che scorre verde verso Verona, piango. Mi rendo conto che è un regalo, che non capisco, che non me l’aspettavo. Mi rendo conto che è tutto solo bello, che tutto ha un nome bellissimo, l’hotel d’oro, il ristorante d’oro, la villa del bene, il paesino dolce, ha tutto un senso morbido, di accoglienza, di stare insieme, un senso completamente diverso. Mi rendo conto che è un regalo enorme, e faccio fatica a parlarne, perché quando ricevi un regalo inaspettato e meraviglioso a volte hai quasi paura di condividerlo, hai paura che la gente non capisca, quanto è bello, prezioso, unico.
Eclettica è un’associazione nata a Dolcè tre anni fa, duecento anni fa impero austro-ungarico, oggi alveare di duemila abitanti sulle sponde dell’Adige, incastonato nella roccia calcarea.
Inizio a imparare nuovi nomi, ogni cosa ha il suo nome, in Eclettica, c’è il Polibooks, il Policaffè, c’è il Tacabanda, il Tacavan, il Tacavibes, Amberlab, Artedì, la sala prove, io un po’ mi perdo un po’ mi dico che non devo capire tutto, che a volte è proprio meglio non capire ma lasciare semplicemente che le cose entrino, mi visitino, fidarsi, mi lascio guidare nelle stanze del Policaffè, mi fanno vedere ogni cosa, la cucina, il bookclub, la stanza da letto, le librerie, una quantità di libri d’antiquariato da far invidia a qualsiasi bibliotecario, parlano della luna, delle residenze, di bandi internazionali, mi rendo conto che ce l’avevo anche io questo sogno a diciott’anni, e non solo io, io e i miei amici, a Bracciano, ci dicevamo: quel casale abbandonato, sul lago, sai che bello, un centro, attività, cultura, prodotti biologici, incontro, ma erano parole, era tutto difficile, dentro fuori intorno, mentre ora vedo solo: possibile, è tutto possibile.
Dolcè ha duemila abitanti e partecipa a bandi internazionali di interscambio per adolescenti con Lipsia, ospita una volta l’anno artisti da tutto il mondo, fa cose grandi, ma soprattutto fa tantissime cose piccole, vede tutto, Eclettica, vede i vecchi, i bambini, i preti, le piante, i musicisti, le musiciste, le autrici, le pittrici, gli autori, i pittori, i ragazzi le ragazze, vede gli amici, le amiche, vede la voglia, i problemi, vede la calma, la possibilità di fare le cose, ha un approccio, Eclettica, ha un metodo, ha uno spirito, ha tanti sorrisi, vede anche me, Eclettica, e mi sembra assurdo, che in tutto quello che fa abbiano trovato me, io che sto a Berlino, io che faccio di tutto per nascondermi, e soffrirne in silenzio, ha trovato me e mi ha fatto un regalo che nessuno mi aveva mai fatto, e ha condiviso il suo essere con me, e io non ci potevo credere.
Vede tutto, Eclettica, vede i mobili, le stanze, gli spazi, vede le parole, le volontà, vede che in ogni cambiamento ce n’è un altro, sa che non c’è fretta, Eclettica, eppure in tre anni ha messo su un centro culturale che ha – non saprei come altro dirlo: tutto – più di quello che io riesca a immaginare.
Vede, Eclettica, raccoglie, tiene conto.
È una stanza per tutti, Eclettica, Eclettica ricorda, dà un nome a tutto, anche alle cose più semplici, che potrebbero essere insignificanti, ma Eclettica non lascia passare, Eclettica si forma di ciò che è, di ciò che pensa, di ciò che desidera.
C’è stata una stanza chiusa, al Policaffè, complicata da aprire. Ci hanno messo tempo, ad aprire quella stanza, ma Nina non se la dimenticava, ogni volta lo diceva, la voleva, quella stanza. Alla fine l’hanno aperta, ora è un bagno, un bagno normale, con tutto quello che gli serve per essere bagno normale, di tutto rispetto – sì: anche gli assorbenti.
È la stanza della Nina.
E io questa cosa non me la scordo più.
Ringrazio Monica per aver guidato, organizzato, pensato, gestito, di nuovo pensato a tutto – tutto,
Ringrazio Filippo per aver parlato, spiegato, mostrato, riso, sorriso, chiamato, proposto,
Ringrazio Nina per il sorriso,
Ringrazio Marco grande per la spontaneità,
Ringrazio Marco piccolo per l’attenzione,
Ringrazio Cire, Jacopo, Sofia, Sofia, Claudia, Clara, Nicolò per avermi regalato un pezzetto che ha contribuito a rifinire il puzzle,
ringrazio Francesco, per aver raccolto un coccio, averlo guardato, scelto, e portato fino a Volargne.
Grazie “
Esther